Una Storia // Nightcall


Guardo davanti a me, questa sera le mie mani sono saldamente attaccate al volante della mia piccola. No, non prendetemi per uno di quei pazzi con il feticismo per la propria auto, tipo quelli che infilano il cazzo nella marmitta o cose del genere. Ho ancora una dignità, io. Rimane il fatto che voglio tanto bene al mio piccolo bolide, tanto da reputarlo una vera e propria parte pulsante del mio corpo. Io sono cuore, motore, sangue, vene, pistoni e benzina. Non è proprio il migliore inizio per un monologo interiore, penserete voi.

“Ma che cazzo, dobbiamo proprio sorbirci un Vin Diesel ancora più ritardato ed oltretutto senza muscoli?”.

E c’avete pure ragione, ma vi fermo subito spiegandovi che la mia non è follia, è lucida adorazione. Tutto grazie alle su linee sinuose, al profumo d’asfalto, alla carrozzeria sgargiante, al muso dal ghigno quasi umano che la rendono una perfetta quanto atipica opera d’arte. Con la sola differenza che questa Mona Lisa a quattro ruote la puoi vivere e toccare senza rimanere dietro ad una minacciosa corda che ne limita l’infinita potenza espressiva. È una creatura troppo perfetta per essere stata creata da un essere cosi imperfetto. Assieme siamo carne e ferro, un ibrido che pulsa insaziabile di velocità ed adrenalina. Quella che manca nella mia vita di ogni giorno, che non sto qui a raccontarvi perchè annoia pure me. Ma quando cala il sole tutto cambia, ed ogni notte ricomincia la stessa storia. Sono seduto sul divano, di fronte solamente un’altra notte vacua ricca di nulla cosmico e autoerotismo da quattro soldi, quando puntualmente arriva la sua voce. La sento sussurrare dalle pareti, sta parlando proprio con me. Mi alzo di scatto lanciandomi verso il tavolo, afferro al volo le chiavi e scappo a velocità siderale dalla porta, lasciandola addirittura spalancata: tanto al massimo possono rubarmi solo la polvere da sopra i mobili. Categoricamente acquistati dai simpatici svedesi amici dell’uomo moderno.

Salgo sull’auto ed è come se fosse la prima volta, piedi saldamente attaccati ai pedali e mani voluttuosamente rapite dal tessuto del volante. La notte si estende minacciosa davanti a me, tutto quello che vedo sono strisce bianche intermittenti illuminate dalla fioca luce dei pochi lampioni funzionanti. Cambio perfettamente marcia, il respiro del mio corpo docilmente coordinato a quello del motore, entro in una simbiosi che mi porta solamente a spingere ancora di più. Accelero, perdo la vista periferica che tutto d’un tratto diventa solamente inutile macchia sfocata di colore, il vento che entra dal finestrino, i due fari ad illuminare il nulla. È questo il mio posto, solo qui dentro mi posso sentire veramente vivo: nessun trucco, nessun inganno. Cade il velo di Maya che offusca le mie giornate, rimane solo il ruvido asfalto a scandire le mie scelte. Destra, sinistra, cavalco la strada come un animale imbizzarrito. L’auto scorre tra le vie come sangue nelle vene, gli incroci sono bivi che spingono carburante nelle arterie solitamente cariche di disagio e rancore da traffico giornaliero, ma che con il calare del buio si aprono alla mia personale autopsia a cinque marce. Risalgo fino alla carotide della città, quell’autostrada cosi vuota che pare abbandonata, un fantasma di catrame che punta verso l’infinito. Inserisco l’ultima marcia e sto volando, squarcio il buio con il boato del motore, risveglio gli spiriti dei dormienti che sonnecchiano impassibili sotto la luna, sperando di farle sentire vive come mi sento io in questo preciso istante. Pare come di vederle, le anime erranti del cicaleccio giornaliero, formiche lavoratrici che trasportano la briciola tanto sudata verso un formichiere che tanto non gli appartiene e non gli apparterrà mai. Suvvia, alziamo al cielo il richiamo della bestia, facciamo sentire che anche la notte racchiude la sua personale vita.

Decido di rientrare in mezzo ai palazzi, alte dighe che sovrastano la volta stellata. Si è accesa la spia della riserva, anche la mia piccola è umana. La luce rossa illumina il mio sorriso stentato mentre scruto i marciapiedi carichi di invisibile povertà. Analizzo lo scorrere delle vie, osservo i volti scavati dalla fame, vinti da un avversario più forte di loro, attanagliati dalla terribile voglia di cambiare verso. Un destino opposto alle formiche lavoratrici di qui sopra: invisibili di giorno, terribilmente protagonisti nel buio della notte. Ma nonostante tutto mi sento al sicuro, dentro a quattro pareti di lamiera, salvo davanti allo sgretolarsi della vita moderna, salvo in mezzo al cemento abilmente plasmato da mani più intelligenti delle mie. Ma nonostante questo stasera sono io il protagonista, la macchina da presa è nelle mie mani, la regia della notte è nei miei occhi. Sono io il produttore ed il protagonista principale, il palcoscenico è tutto silenziosamente per me, e ci sguazzo a meraviglia.

L’orologio sul cruscotto segna le 4 e 30, è ora di tornare a casa, tra poco il sole illuminerá implacabile con i suoi raggi la monotonia quotidiana. Brutto figlio di puttana, se non fossi cosi indispensabile ti ghigliottinerei all’istante. L’auto entra nel mio vialetto, la rugiada bagna già l’erba verde del mio solitario prato. Chiudo la portiera con il solito movimento automatico e mi avvio verso la porta, ancora spalancata dalla furia motoristica di qualche ora prima. Decido di lasciarla aperta, osservo l’invitante divano che mi chiama verso il mondo dei sogni. Dopo una serata da protagonista che nessuno ha potuto osservare sono ancora qui, al punto di partenza. E mi distendo rinfrancato, ritornando nell’anonimato.


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